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Rassegna stampa 2002

giovedi 16 Maggio 2002

cannabis
La ricerca, i pregiudizi (anche della scienza), gli interessi
DI FRANCESCO BOTTACCIOLI *

Perfino Fiorello ha detto la sua sulla marijuana terapeutica, rinfocolando un dibattito mai spento e di cui "Salute" si è già occupata (su numeri 275 e 310, ndr.). Per nostra fortuna, la "querelle" non è casereccia, ha una dimensione internazionale. E’ noto che alcuni paesi, come il Canada, l’Olanda e cinque stati Usa, hanno legalizzato l’uso terapeutico della cannabis. Al tempo stesso, dalla ricerca scientifica di base è recentemente emerso un dato di grandissimo interesse: la scoperta che recettori per la cannabis sono presenti non solo nel cervello e nel resto del sistema nervoso, ma anche nelle cellule immunitarie.
In alcuni ambiti di ricerca si respira un po’ la stessa aria di trent’anni fa, quando vennero scoperti i recettori per la morfina, evento da cui partì il disvelamento del sistema endogeno degli oppioidi. Anche i recettori per gli oppiodi, come quelli per la cannabis, stanno nel sistema nervoso e nel sistema immunitario e, come loro, fanno parte del sistema di controllo del dolore, dei meccanismi di regolazione immunitaria e di molto altro, ancora da precisare e da scoprire.
Dall’altra parte, c’è, forte, una resistenza dei clinici, soprattutto di farmacologi legati alla sperimentazione clinica, che sembra risentire di due fattori: la storica collocazione dell’"erba" per antonomasia, negli anni ‘60, nel campo delle droghe senza alcun effetto terapeutico (contraddicendo apertamente la storia medica millenaria della cannabis); l’assenza di interesse delle grandi case farmaceutiche, che operano per (lucrosi) brevetti su molecole di sintesi e non su piante o derivati di sostanze naturali.
Si è storicamente instaurato, quindi, un pregiudizio che condiziona soprattutto la sperimentazione clinica, di cui importanti opinion leader si fanno portavoce. Resta il fatto che, a partire dagli anni ‘60, in tutto l’Occidente, gruppi di persone affette da patologie croniche (sclerosi multipla, artrite reumatoide, cancro) scarsamente trattabili, hanno ripetutamente segnalato di star meglio dopo aver fumato la famigerata "erba". Dolori, nausea, spasmi, mancanza di appetito, stanchezza, queste le indicazioni principali dell’erba, via via segnalate da rapporti medici pubblicati nelle più importanti riviste scientifiche. Poi, negli anni ‘80, i primi studi clinici controllati riguardo a nausea, vomito e dolori di varia natura.
Per la nausea e il vomito, la marijuana e il suo più antico derivato, il tetraidrocannabinolo (THC), sono risultati più efficaci e molto più sicuri dei farmaci antiemetici di allora. In trenta studi clinici controllati, su pazienti in chemioterapia, è emersa la superiorità antinausea dei cannabinoidi e, soprattutto, la preferenza di molti pazienti per l’uso di queste sostanze. Nessuno però, all’epoca, si è sognato di proporre la marijuana e derivati al posto dei farmaci in uso! Adesso, si sostiene che il nuovo farmaco antiemetico disponibile (Ondansetron), antagonista di un recettore della serotonina, ha risolto il problema, essendo più potente di canapa indiana e derivati.
Il che è vero, ma, se si tengono presenti le indicazioni delle società oncologiche, c’è un ampio spazio per la cannabis, in quanto l’Ondansetron è riservato alle chemioterapie pesanti, mentre per le situazioni medie si prevede cortisone e per le lievi niente. Così, nel caso del dolore, tutti gli studi controllati dicono che gli effetti della canapa indiana sono simili a quelli della codeina, ma suggeriscono anche che i derivati dell’erba siano molto più efficaci dei farmaci esistenti nelle neuropatie di tipo spastico. A ciò vanno aggiunti gli studi e le ricerche di base in corso in diversi paesi (vedi box). Pare quindi molto utile proseguire la ricerca e la sperimentazione clinica su marijuana e derivati, per delimitarne livelli di efficacia ed effetti indesiderati. Al riguardo, rattrista la chiusura che emerge dalle dichiarazioni rilasciate dai nostri responsabili istituzionali e scientifici, anche perché, ancora una volta, rischiano di escludere il nostro paese dal giro della ricerca innovativa e, soprattutto, di approfondire il fossato tra bisogni delle persone malate, pluralità e flessibilità degli strumenti terapeutici e risposte istituzionali.

*Presidente della società italiana di Psiconeuroendocrinoimmunologia

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