cannabis La ricerca, i
pregiudizi (anche della scienza), gli
interessi DI
FRANCESCO BOTTACCIOLI *
Perfino Fiorello ha detto la
sua sulla marijuana terapeutica, rinfocolando un dibattito mai
spento e di cui "Salute" si è già occupata (su numeri 275 e
310, ndr.). Per nostra fortuna, la "querelle" non è
casereccia, ha una dimensione internazionale. E’ noto che
alcuni paesi, come il Canada, l’Olanda e cinque stati Usa,
hanno legalizzato l’uso terapeutico della cannabis. Al tempo
stesso, dalla ricerca scientifica di base è recentemente
emerso un dato di grandissimo interesse: la scoperta che
recettori per la cannabis sono presenti non solo nel cervello
e nel resto del sistema nervoso, ma anche nelle cellule
immunitarie. In alcuni ambiti di ricerca si respira un po’
la stessa aria di trent’anni fa, quando vennero scoperti i
recettori per la morfina, evento da cui partì il disvelamento
del sistema endogeno degli oppioidi. Anche i recettori per gli
oppiodi, come quelli per la cannabis, stanno nel sistema
nervoso e nel sistema immunitario e, come loro, fanno parte
del sistema di controllo del dolore, dei meccanismi di
regolazione immunitaria e di molto altro, ancora da precisare
e da scoprire. Dall’altra parte, c’è, forte, una resistenza
dei clinici, soprattutto di farmacologi legati alla
sperimentazione clinica, che sembra risentire di due fattori:
la storica collocazione dell’"erba" per antonomasia, negli
anni ‘60, nel campo delle droghe senza alcun effetto
terapeutico (contraddicendo apertamente la storia medica
millenaria della cannabis); l’assenza di interesse delle
grandi case farmaceutiche, che operano per (lucrosi) brevetti
su molecole di sintesi e non su piante o derivati di sostanze
naturali. Si è storicamente instaurato, quindi, un
pregiudizio che condiziona soprattutto la sperimentazione
clinica, di cui importanti opinion leader si fanno portavoce.
Resta il fatto che, a partire dagli anni ‘60, in tutto
l’Occidente, gruppi di persone affette da patologie croniche
(sclerosi multipla, artrite reumatoide, cancro) scarsamente
trattabili, hanno ripetutamente segnalato di star meglio dopo
aver fumato la famigerata "erba". Dolori, nausea, spasmi,
mancanza di appetito, stanchezza, queste le indicazioni
principali dell’erba, via via segnalate da rapporti medici
pubblicati nelle più importanti riviste scientifiche. Poi,
negli anni ‘80, i primi studi clinici controllati riguardo a
nausea, vomito e dolori di varia natura. Per la nausea e il
vomito, la marijuana e il suo più antico derivato, il
tetraidrocannabinolo (THC), sono risultati più efficaci e
molto più sicuri dei farmaci antiemetici di allora. In trenta
studi clinici controllati, su pazienti in chemioterapia, è
emersa la superiorità antinausea dei cannabinoidi e,
soprattutto, la preferenza di molti pazienti per l’uso di
queste sostanze. Nessuno però, all’epoca, si è sognato di
proporre la marijuana e derivati al posto dei farmaci in uso!
Adesso, si sostiene che il nuovo farmaco antiemetico
disponibile (Ondansetron), antagonista di un recettore della
serotonina, ha risolto il problema, essendo più potente di
canapa indiana e derivati. Il che è vero, ma, se si tengono
presenti le indicazioni delle società oncologiche, c’è un
ampio spazio per la cannabis, in quanto l’Ondansetron è
riservato alle chemioterapie pesanti, mentre per le situazioni
medie si prevede cortisone e per le lievi niente. Così, nel
caso del dolore, tutti gli studi controllati dicono che gli
effetti della canapa indiana sono simili a quelli della
codeina, ma suggeriscono anche che i derivati dell’erba siano
molto più efficaci dei farmaci esistenti nelle neuropatie di
tipo spastico. A ciò vanno aggiunti gli studi e le ricerche di
base in corso in diversi paesi (vedi box). Pare quindi molto
utile proseguire la ricerca e la sperimentazione clinica su
marijuana e derivati, per delimitarne livelli di efficacia ed
effetti indesiderati. Al riguardo, rattrista la chiusura che
emerge dalle dichiarazioni rilasciate dai nostri responsabili
istituzionali e scientifici, anche perché, ancora una volta,
rischiano di escludere il nostro paese dal giro della ricerca
innovativa e, soprattutto, di approfondire il fossato tra
bisogni delle persone malate, pluralità e flessibilità degli
strumenti terapeutici e risposte istituzionali.
*Presidente della società italiana di
Psiconeuroendocrinoimmunologia |
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