la cannabis, la libertà di cura
e la politica DI GUGLIELMO
PEPE
L’invito rivolto dalla Regione lombarda al governo e al
Parlamento affinché regolamentino l’uso medico della cannabis,
è diventato un "caso". Era scontato. Dopo tutto lo "spinello"
è da oltre trent’anni oggetto di polemiche più o meno
violente, più o meno argomentate tra proibizionisti e "anti".
E se nel tempo ha perso lo smalto di portabandiera della
cultura libertaria, continua ad avere un forte valore
simbolico, come ha dimostrato la marcia in favore della
marijuana che si è svolta il 4 maggio in 178 città del mondo.
La marcia non poteva che sostenere le iniziative in favore
della cannabis a scopo di cura. Sul fronte opposto, c’è
Alleanza nazionale che fin dalle sue origini (missine) ha
osteggiato ogni possibilità di uso legale della canapa
indiana. Non è nel suo Dna tale ipotesi, nonostante rivendichi
di essere in uno schieramento che fa della libertà un
vessillo. Sulla via della "crociata", il partito di Fini
sostiene che il voto lombardo apre la strada al consumo di
massa e allo spaccio legalizzato della marijuana. An però
dimentica che la mozione ha trovato d’accordo centrosinistra e
centrodestra. E dimentica (come il ministro Gasparri, che
sembra il più oltranzista), che numerosi esponenti di An tre
anni fa erano schierati con chi rivendicava il diritto di
ricorrere alla terapia del professor Di Bella. Se la libertà
di cura era valida allora, perché oggi quel principio finisce
nella spazzatura? I malati di cancro pro Di Bella erano forse
diversi da quelli che adesso chiedono di non soffrire o di
star meglio dopo la "chemio"? L’introduzione della
cannabis, in terapia, non dovrebbe essere strumentalizzata per
farne propaganda partitica e ideologica. Perché è in
discussione ben altro: la libertà di cura e il diritto a non
soffrire. Ai partiti, di solito, non interessano. Ma sono
valori sottovalutati anche dal mondo scientifico. E la loro
negazione condanna la persona sofferente a subire una violenza
psicofisica, comprensibile solo da chi vive in una condizione
di subordinazione al medico e al male. Qui è il "cuore"
della questione. E se si è d’accordo si può convenire che è
discutibile l’obiezione sulla scarsità di prove scientifiche
sull’efficacia della marijuana contro dolori e disturbi seri.
Perché andrebbero meglio considerati i diversi studi, condotti
in parecchi paesi, tesi a dimostrarne l’utilità. Ma ammettiamo
che gli studi non siano sufficienti: non bisognerebbe
sostenere che è necessario sperimentare la "marijuana
terapeutica", senza chiudersi alla scienza, alle nuove
scoperte che la ricerca può regalare? Un’altra
argomentazione critica è questa: la "canna" è inutile perché
ci sono vari farmaci con un accertato effetto analgesico. Come
la morfina. E’ vero, parole giuste. Peccato che la morfina sia
tossica, pesante. E neppure viene prescritta a causa dei tanti
ostacoli burocratici e della diffidenza che la circonda: siamo
tra gli ultimi paesi in Europa a prescriverla. La
situazione del sofferente va capita e richiede un minimo di
partecipazione, di solidarietà. Non per nulla c’è stata la
sentenza del Tribunale di Venezia, che ha autorizzato una
persona gravemente malata di tumore a ricorrere alla cannabis
a fini terapeutici. Ed è comprensibile il comportamento di chi
va all’"estero" (nella farmacia del Vaticano), per acquistare
un collirio a base di canapa indiana, efficace contro il
glaucoma e privo di effetti collaterali. Insomma l’alzata
di scudi non aiuta i malati, non fa capire i problemi veri,
non lascia ai medici la possibilità di scegliere in scienza e
coscienza. Per quanto ci riguarda (come potete leggere nelle
pagine successive, a firma del professor Bottaccioli) noi
continueremo a raccontare le novità sulla cannabis e quel che
la scienza mondiale sta studiando. Con la speranza che
l’Italia segua l’esempio. Nell’interesse dei malati.
g.pepe@repubblica.it
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