LETTERE La possibilità di usare marijuana per lenire le sofferenze
Alla fine di aprile il Consiglio Regionale della Lombardia ha approvato una mozione presentata dai radicali nella quale si chiede al Governo e al Parlamento di "regolamentare l'uso medico della canapa indiana e dei suoi derivati". Paesi come Israele, Germania, Canada e Stati Uniti lo hanno già fatto, sulla base di studi clinici che ne dimostrano la possibile efficacia nella terapia del glaucoma e nel contrasto degli effetti collaterali dei farmaci chemioterapici e delle cure per l'Aids.
In Italia, invece, c'è chi ha imputato alla mozione approvata dalla Regione Lombardia di essere il "cavallo di Troia" dell'antiproibizionismo.
Daniele Levi Milano
RISPOSTA DI PAOLO MIELI
Caro signor Levi, un giorno saremo tutti grati a Yasha Reibman, il giovane medico radicale che ha presentato al Consiglio della Regione Lombardia la mozione per l'uso medico della cannabis. Tutti, proibizionisti e antiproibizionisti. Perché qui non sono in causa né la legalizzazione né la liberalizzazione della marijuana, bensì la possibilità di usare quelle foglioline per lenire una sofferenza o contribuire ad una terapia.
Nient'altro. Esattamente quel che facciamo da decenni - senza porci tanti problemi - allorché per curare un malato ricorriamo agli oppiacei, cioè sostanze derivate da una droga vera, pesante, anzi pesantissima. E allora: perché la morfina sì e la cannabis no? Nessuno ha dato risposta convincente a tale quesito.
Il quotidiano cattolico "Avvenire" (che in questi giorni, sia detto per inciso, riscuote un meritato successo per un'azzeccatissima riforma grafica) è decisamente contrario all'iniziativa di Reibman. Perciò propone ai lettori il parere del primario neurologo al Bambin Gesù di Roma Federico Vigevano che afferma: "Non ci sono prove che a ridurre la frequenza delle crisi epilettiche sia il principio attivo della cannabis". E del neurologo dell'università di Bologna Carlo Alberto Tassinari che dice la stessa cosa.
E di don Oreste Benzi: "Nulla si sa di scientificamente certo sulle proprietà curative della marijuana". Hanno ragione? Sì: non è dimostrato al cento per cento che quelle foglie abbiano virtù terapeutiche. Ma siamo sulla buona strada. E, pur ammettendo che un domani si arrivi alla conclusione certa che la cannabis non dà terapie, in ogni caso resteranno le sue proprietà analgesiche e il fatto che essa è assai meno tossica del più blando tra gli oppiacei.
Ma la questione - diciamo la verità - è soprattutto di natura ideologica. Sempre su "Avvenire" ho letto l'articolo di Chino Pezzoli della Fondazione promozione umana, il quale afferma che "la cultura dello "sballo"" rischia di trovare da parte della Regione Lombardia "un indiretto assenso". Che "i nostri giovani" hanno ricevuto dall'iniziativa di Reibman il messaggio che "le "canne" fanno bene alla salute". Che "la proposta regionale è arrivata a dare agli adolescenti un motivo in più per consumare "fumo"". E conclude avvertendoci che se alla droga si "aprono i portoncini" poi ci si ritrova "con i portoni spalancati". Io non penso che Pezzoli sia in malafede. E allora mi permetto di fargli osservare che, poiché nei nostri ospedali, come ho detto, hanno libera circolazione - sotto controllo medico, s'intende - i derivati dall'oppio, quelle sue frasi si dovrebbero poter pronunciare allo stesso modo con riferimento alla morfina. Si dovrebbe poter dire, cioè, che la somministrazione medica di morfina, in atto da anni nelle case di cura di tutto il mondo, ha costituito un "incitamento alla cultura della siringa"; che "i nostri giovani (ormai adulti per gli anni trascorsi da quando sono in uso questi "medicinali", ndr) hanno ricevuto il messaggio che l'eroina fa bene alla salute"; e che i policlinici di tutti i Paesi hanno "spalancato le porte al buco". Il che, ad ogni evidenza, non è. Dunque? Vada avanti, Reibman.
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